A seconda del campo in cui di muoviamo per studio o lavoro, apprendere un nuovo software, magari dopo averne studiato uno in modo approfondito, può significare dover percorrere una curva d’apprendimento più o meno elevata e un effort più o meno significativo, per vari motivi:
- in primo luogo, vi sono l’usabilità e l’accessibilità del programma e della sua interfaccia grafica (o della sintassi per accedere alle sue funzioni, se parliamo di interfaccia da riga di comando);
- in secondo luogo, vi è la presenza di una comunicazione simile a quella presente in software affini: stesse funzioni, magari con nomenclature leggermente differenti, ma tuttavia facilmente intuibili e riconoscibili per trovare velocemente ciò che serve;
- in terzo luogo, un software che propone funzioni per un determinato ambito di lavoro più essere molto più facile da apprendere se già conosciamo e usiamo fluidamente un altro software simile. Se l’ambito di cui il software tratta è composto da conoscenze molto verticalizzate e “specialistiche”, la terminologia sarà puntuale e ancora più semplice sarà muoversi fra software di vario genere (ad esempio, tra un software proprietario ed uno open source); discorso differente per un software molto orizzontale e adeguabile a vari casi d’uso (ad esempio un software di scrittura o di fogli elettronici, per i quali l’uso può essere tanto generico quanto specifico, a seconda dell’intento per cui lo usiamo);
- in quarto luogo, in linea di principio, il concetto di interfaccia tra l’uomo e la macchina presenta un’evoluzione molto lenta poiché, per quanto personalizzabile sia la natura di una periferica e del suo interfacciamento, modularizzabile e sistemizzabile, sia ad alto che basso livello, è piuttosto improbabile che la natura e la fisiologia umana si adattino velocemente a cambi repentini nel modo di concepire l’ergonomia, anche degli spazi di lavoro digitali: non è un caso che ad assunti come “less is more”, o ad interfacce ibridate dal punto di vista del design – dove si usano elementi scheumorfici per elementi meno facilmente intuibili, ed elementi dal design minimale che rimandino ad items più facilmente distinguibili e più familiari per l’utente – vedremo sempre più interfacce e devices adeguarsi alla persona e ai suoi “rituali” quotidiani più semplici: l’atto di controllare l’orologio usando però uno smartwatch, che si attiva prontamente quando una serie di sensori rilevano un’avvenuta rotazione del polso – ne è un esempio; un’impartizione di comandi vocali, che risultino più semplici e “naturali” possibile per la persona segue lo stesso principio: “Siri, quali ristoranti abbiamo in zona?”, “Alexa, che tempo fa oggi?”, “Nomi, metti una canzone rock”;
- In quinto luogo, se come asseriva Ludwig Wittgenstein “le parole che conosco sono i limiti del mio mondo”, la semantica funzionale che l’interfaccia del mio software presenta deve essere quanto più matura e curata possibile, e laddove non bastino le parole, opportune icone, simboli, segni, forme o colori devono corroborare quanto le parole non possono rendere completamente; tutto ciò che è fraintendibile, deve essere limitato e adeguatamente circoscritto, anche nei limiti della propria interpretabilità. Si potrebbero usare piccoli screenshot, frecce colorate o tutto ciò che aiuta l’utente nel decodificare ciò che il software sta cercando di mostrargli. Pensiamo a quante volte, software differenti usano uno stesso termine per indicare funzioni e entità diverse;
- In sesto luogo, ogni software prevede un flusso di lavoro. E tale flusso di lavoro presuppone la ripetizione di una sequenza di operazioni e pensieri a cui noi, in qualità di utente, ci atteniamo con più o meno doveroso rigore. Generalmente, quando impariamo ad usare molto bene un programma, alcuni di questi passaggi ed operazioni abbiamo la tendenza a rilegarli in un’area di ripetitività; di minore coscienza e consapevolezza, all’interno del nostro flusso di lavoro: sono operazioni standard, ripetitive, e per questioni di economia tendiamo ad ottimizzare i nostri “pensieri” senza farci troppo caso; è un pò lo stesso meccanismo – del tutto naturale – che si mette in moto quando iniziamo a guidare; inizialmente il cambiare marce e il gioco di frizione/acceleratore richiede attenzione, poi lo trasformiamo in automatismo; ora, l’uso di un software porta con sé degli automatismi sia nel ragionamento, sia nella sequenza di considerazioni logiche con cui traiamo conclusioni e progrediamo nel flusso di lavoro; è normale che ogni programma abbia un flusso di lavoro differente, ed esiga riflessioni differenti, poiché è in quanto software è di per sé un flusso di pensieri codificati applicato in modo diverso, che da sempre risultato alla tecnologia che noi vediamo. Tecnologia, appunto, che è un pensiero (o flusso di pensiero) applicato. Apprendere un nuovo software costa molta fatica se le fasi di lavoro ed i passaggi mentali si discostano fortemente da quelli a cui siamo normalmente abituati; quindi cerchiamo di mantenere un allenamento nel cambiare “contesto” di lavoro e interfaccia, così da non incorrere in un pesante collo di bottiglia quando non abbiamo a disposizione un programma che non è esattamente quello che conosciamo. Quasi mai si possono mitigare i rischi, perché nessuno sa tutto di tanti programmi, ma è doveroso fare del nostro meglio.
Questi punti ci dimostrano, in modo estremamente semplicistico, riduttivo e semplificato, quante varianti intervengano nel nostro processo di apprendimento di un software: se da un lato chiarisce il perché, una volta appreso in profondità un software facciamo difficoltà a passare interamente ad un altro software, dall’altro lato ci offre un piccolo scorcio su quanti aspetti designer e sviluppatori dovrebbero focalizzare al meglio la loro attenzione per rendere quanto più “effortless” possibile il passaggio fra un software ed un altro per i propri clienti e utenti. Dal nostro punto di vista di utenti, non scoraggiamoci nell’imparare un software più o meno complesso: imparare ad usare un nuovo software è una bellissima e costruttiva sfida con noi stessi e con il nostro modo di pensare, poiché è occasione per metterci sempre in discussione; inoltre, più complesso è il software che vogliamo apprendere, maggiore sarà il tempo che dovremo investirci; più tempo è richiesto per apprenderlo, più un software ci darà soddisfazioni quando saremo in grado di usarlo a piacimento, perché allora sarà in grado di concederci grande libertà nel produrre nostri lavori ed elaborati. Generalmente i software più semplici nelle loro funzioni e più facili da apprendere sono anche i più limitati dal punto di vista della creatività e della “duttilità” con cui possiamo usarli. Ultimo dettaglio: ricordiamo di leggere la documentazione, spesso considerata la parte più noiosa dell’apprendimento, e invece la più concentrata e densa per fare passi da gigante (naturalmente deve essere ben leggibile e scritta correttamente)!