Come trasformare ed evolvere un filing system

Ogni sistema di filing ha un lifecycle, equivalente alla durata della sua utilità per la persona, l’entità o per la società che lo adotta. Esaurita la sua utilità attuale, il sistema di produttività si adegua sottostando alle nuove esigenze: si trasforma in tutto o in parte.

Per evolversi in maggiore o minore complessità, il sistema deve essere prima di tutto decontestualizzato, poichè solo astraendolo dagli elementi che ha gestito, può essere analizzato nella qualità delle sue parti. L’operazione di decontestualizzazione ci permette di lavorare con l’ossatura del nostro sistema di filing: a seconda della sua entità ed articolazione, per effettuare questa procedura bastano carta e penna, o un qualsiasi programma simil-Excel o di mappatura mentale.

In totale astrazione, ricollocati i suoi elementi, rivisitate le sue macroaree di funzionamento, ridefiniti i suoi scopi ed eventualmente adeguata la nomenclatura cui sottostaranno i suoi dati, il sistema è pronto per essere riapplicato: si integra o reintegra l’ossatura del nuovo sistema all’interno del filing system che già usiamo.

Non ci resta che contestualizzare nuovamente il sistema di filing, applicandolo ai nostri contenuti, spostando e riadeguando i files o le loro nomenclature a seconda del nuovo ordine prescelto.

Perché è difficile imparare ad usare un nuovo software? Cosa rende difficile apprendere un nuovo programma?

A seconda del campo in cui di muoviamo per studio o lavoro, apprendere un nuovo software, magari dopo averne studiato uno in modo approfondito, può significare dover percorrere una curva d’apprendimento più o meno elevata e un effort più o meno significativo, per vari motivi:

  • in primo luogo, vi sono l’usabilità e l’accessibilità del programma e della sua interfaccia grafica (o della sintassi per accedere alle sue funzioni, se parliamo di interfaccia da riga di comando);
  • in secondo luogo, vi è la presenza di una comunicazione simile a quella presente in software affini: stesse funzioni, magari con nomenclature leggermente differenti, ma tuttavia facilmente intuibili e riconoscibili per trovare velocemente ciò che serve;
  • in terzo luogo, un software che propone funzioni per un determinato ambito di lavoro più essere molto più facile da apprendere se già conosciamo e usiamo fluidamente un altro software simile. Se l’ambito di cui il software tratta è composto da conoscenze molto verticalizzate e “specialistiche”, la terminologia sarà puntuale e ancora più semplice sarà muoversi fra software di vario genere (ad esempio, tra un software proprietario ed uno open source); discorso differente per un software molto orizzontale e adeguabile a vari casi d’uso (ad esempio un software di scrittura o di fogli elettronici, per i quali l’uso può essere tanto generico quanto specifico, a seconda dell’intento per cui lo usiamo);
  • in quarto luogo, in linea di principio, il concetto di interfaccia tra l’uomo e la macchina presenta un’evoluzione molto lenta poiché, per quanto personalizzabile sia la natura di una periferica e del suo interfacciamento, modularizzabile e sistemizzabile, sia ad alto che basso livello, è piuttosto improbabile che la natura e la fisiologia umana si adattino velocemente a cambi repentini nel modo di concepire l’ergonomia, anche degli spazi di lavoro digitali: non è un caso che ad assunti come “less is more”, o ad interfacce ibridate dal punto di vista del design – dove si usano elementi scheumorfici per elementi meno facilmente intuibili, ed elementi dal design minimale che rimandino ad items più facilmente distinguibili e più familiari per l’utente – vedremo sempre più interfacce e devices adeguarsi alla persona e ai suoi “rituali” quotidiani più semplici: l’atto di controllare l’orologio usando però uno smartwatch, che si attiva prontamente quando una serie di sensori rilevano un’avvenuta rotazione del polso – ne è un esempio; un’impartizione di comandi vocali, che risultino più semplici e “naturali” possibile per la persona segue lo stesso principio: “Siri, quali ristoranti abbiamo in zona?”, “Alexa, che tempo fa oggi?”, “Nomi, metti una canzone rock”;
  • In quinto luogo, se come asseriva Ludwig Wittgenstein “le parole che conosco sono i limiti del mio mondo”, la semantica funzionale che l’interfaccia del mio software presenta deve essere quanto più matura e curata possibile, e laddove non bastino le parole, opportune icone, simboli, segni, forme o colori devono corroborare quanto le parole non possono rendere completamente; tutto ciò che è fraintendibile, deve essere limitato e adeguatamente circoscritto, anche nei limiti della propria interpretabilità. Si potrebbero usare piccoli screenshot, frecce colorate o tutto ciò che aiuta l’utente nel decodificare ciò che il software sta cercando di mostrargli. Pensiamo a quante volte, software differenti usano uno stesso termine per indicare funzioni e entità diverse;
  • In sesto luogo, ogni software prevede un flusso di lavoro. E tale flusso di lavoro presuppone la ripetizione di una sequenza di operazioni e pensieri a cui noi, in qualità di utente, ci atteniamo con più o meno doveroso rigore. Generalmente, quando impariamo ad usare molto bene un programma, alcuni di questi passaggi ed operazioni abbiamo la tendenza a rilegarli in un’area di ripetitività; di minore coscienza e consapevolezza, all’interno del nostro flusso di lavoro: sono operazioni standard, ripetitive, e per questioni di economia tendiamo ad ottimizzare i nostri “pensieri” senza farci troppo caso; è un pò lo stesso meccanismo – del tutto naturale – che si mette in moto quando iniziamo a guidare; inizialmente il cambiare marce e il gioco di frizione/acceleratore richiede attenzione, poi lo trasformiamo in automatismo; ora, l’uso di un software porta con sé degli automatismi sia nel ragionamento, sia nella sequenza di considerazioni logiche con cui traiamo conclusioni e progrediamo nel flusso di lavoro; è normale che ogni programma abbia un flusso di lavoro differente, ed esiga riflessioni differenti, poiché è in quanto software è di per sé un flusso di pensieri codificati applicato in modo diverso, che da sempre risultato alla tecnologia che noi vediamo. Tecnologia, appunto, che è un pensiero (o flusso di pensiero) applicato. Apprendere un nuovo software costa molta fatica se le fasi di lavoro ed i passaggi mentali si discostano fortemente da quelli a cui siamo normalmente abituati; quindi cerchiamo di mantenere un allenamento nel cambiare “contesto” di lavoro e interfaccia, così da non incorrere in un pesante collo di bottiglia quando non abbiamo a disposizione un programma che non è esattamente quello che conosciamo. Quasi mai si possono mitigare i rischi, perché nessuno sa tutto di tanti programmi, ma è doveroso fare del nostro meglio.

Questi punti ci dimostrano, in modo estremamente semplicistico, riduttivo e semplificato, quante varianti intervengano nel nostro processo di apprendimento di un software: se da un lato chiarisce il perché, una volta appreso in profondità un software facciamo difficoltà a passare interamente ad un altro software, dall’altro lato ci offre un piccolo scorcio su quanti aspetti designer e sviluppatori dovrebbero focalizzare al meglio la loro attenzione per rendere quanto più “effortless” possibile il passaggio fra un software ed un altro per i propri clienti e utenti. Dal nostro punto di vista di utenti, non scoraggiamoci nell’imparare un software più o meno complesso: imparare ad usare un nuovo software è una bellissima e costruttiva sfida con noi stessi e con il nostro modo di pensare, poiché è occasione per metterci sempre in discussione; inoltre, più complesso è il software che vogliamo apprendere, maggiore sarà il tempo che dovremo investirci; più tempo è richiesto per apprenderlo, più un software ci darà soddisfazioni quando saremo in grado di usarlo a piacimento, perché allora sarà in grado di concederci grande libertà nel produrre nostri lavori ed elaborati. Generalmente i software più semplici nelle loro funzioni e più facili da apprendere sono anche i più limitati dal punto di vista della creatività e della “duttilità” con cui possiamo usarli. Ultimo dettaglio: ricordiamo di leggere la documentazione, spesso considerata la parte più noiosa dell’apprendimento, e invece la più concentrata e densa per fare passi da gigante (naturalmente deve essere ben leggibile e scritta correttamente)!

Il Digitale a Scuola: i valori della Condivisione e dell’Apprendimento

(La versione originale di questo mio articolo è pubblicata sul blog Condividi et Imparaquesto il link all’articolo originale)

Portare il digitale a scuola sotto forma di nuovi spazi educativi, ma anche soprattutto di nuove competenze e conoscenze e di formazione per i nostri insegnanti era l’auspicio – ambizioso ma secondo chi scrive raggiungibile – con cui il PNSD si proponeva nel 2015. Nelle condizioni di poter stilare un piccolo “bilancio”, Condividi et Impara è un punto di incontro tra docenti, formatori, insegnanti, genitori e alunni. Le considerazioni che seguono, senza pretendere di essere esaustivi, rappresentano il personalissimo punto di vista di chi scrive.

Con il digitale a scuola, condivisione e apprendimento sono due facce della stessa medaglia: non senza qualche difficoltà e ostacolo, coesistono e evolvono l’una accanto all’altro, in quanto potenzialità di cui la didattica non dovrebbe mai fare a meno. Posto che condividere e apprendere sono due attività facilmente realizzabili anche nel contesto analogico, senza computer né piattaforme digitali, ma solo con carta, penna ed esperienza sul campo, il valore svolto dal PNSD per il futuro del Paese è grande, per varie ragioni:

1 – Informa sull’importanza e dimostra la necessarietà di un’alfabetizzazione digitale che si estenda a tutti, in ogni ambito, rivolta a tutte le età, indipendemente dalla professione o dagli interessi personali, perché di digitalità si compone la quotidianità dei giovani. E se noi siamo quelli a cui i giovani fanno riferimenti, come simulazione ed auspicabilmente emulazione, per gli standard comportamentali, per i valori e per il modo di vedere il mondo, allora alfabetizzarsi digitalmente, se già non lo siamo, è una responsabilità che ha poco a che vedere con la scuola; sconfina dalle aule scolastiche, dai corridoi, dalla segreteria, dall’aula docenti; ha invece molto a che vedere – in quanto grande responsabilità e opportunità per tutti noi, che darà frutti ben visibili quando i ragazzi saranno al di fuori di qualsiasi ambiente formativo. L’alfabetizzazione digitale, come facilmente intuibile dai termini, è un piccolo sguardo, molto spesso fin troppo breve e molto superficiale, al vasto mondo dell’informatica e delle tecnologie, in costante mutazione. Il risultato di una buona alfabetizzazione digitale, secondo me? Il desiderio di conoscere; l’interesse nel capire il funzionamento di ciò che ci circonda; la volontà di approfondire uno o più argomenti specifici; il mettere in pratica il più possibile per perfezionare quanto finora appreso, rivolgendo lo sguardo sempre al futuro.

2 – L’acquisizione di un metodo di lavoro adeguato al digitale deve partire dall’insegnamento: apprendere il digitale va fatto… digitalmente! Con supporti adeguati, in particolare con piattaforme digitali comuni che possano permettere l’avanzamento di tutti i partecipanti-studenti. Perché? Perché analogico e digitale sono paradigmi del nostro mondo completamente diversi, e ogni volta che trasferiamo conoscenze digitali in formato analogico o viceversa stiamo praticando un grande sforzo cognitivo. Ciò non toglie che analogico e digitale non possano funzionare assieme – sono io il primo a far grande uso di supporti analogici per la loro comodità e immediatezza, figuriamoci!! – ma devono essere capiti gli scopi di ogni tecnologia prima di poterne sfruttare al meglio le potenzialità e rispettare al meglio i limiti, sia loro che nostri. Perché come da formatori e da studenti abbiamo (grandi!) limiti e potenzialità, così le tecnologie che usiamo hanno (grandi!) limiti e potenzialità; quindi sta a noi riflettere su quale tecnologia risulti maggiormente idonea in un determinato momento della nostra quotidianità o della nostra vita lavorativa o formativa: una forma mentis, questa, che deve necessariamente scaturire dalla frequentazione di corsi di alfabetizzazione diginale nelle scuole. Tutta questione di metodo, appunto! E – io in primis – abbiamo tutti molta strada da fare ancora!

3 – Causa ed effetto, anche nel digitale, rispecchiano l’essere umano; ovvero, anche se abbiamo le macchine e le tecnologie, siamo noi ad averle pensate, ideate, progettate e realizzate: uno degli aspetti più interessanti del conoscere e impiegare una tecnologia nuova è l’essere consapevoli della sua portata, non in termini immediati, ma di cosa la sua adozione porterà da ora ai prossimi 10 anni. Il PNSD, come tale, è un esperimento audace, ambizioso, di immenso valore sociale nonché formativo, perché sovverte paradigmi che fino ad oggi abbiamo erroneamente creduto confinati all’ambiente scolastico. Vedere il mondo con occhi più “tecnologici” ci permette di responsabilizzarci e consapevolizzarci riguardo ciò che facciamo ora, nell’immediato. Perché con la tecnologia digitale, ciò che facciamo ora, non sarà solo apparentemente attuale tra dieci anni, ma resterà condivisibile e auspicabilmente accessibile a tutti, perché non si cerchi continuamente di reinventare la ruota, ma si possa anche progredire socialmente verso un uso più accorto ed efficiente delle tantissime innovazioni che tuttora ci circondano, ma che non abbiamo ancora osato sfruttare!

Carta e Computer

“Le antiche biblioteche erano luoghi del sapere, di ricerca e umanità. La carta è un grande ponte fra l’animo, l’intelligenza e le mani creative; durerà nei secoli più delle mutevoli memorie informatiche da trasferire, ogni volta, fra diversi formati.

Eppure, oggi, chi non utilizza computer e sistemi informatici smette di esistere: diviene un “nuovo eremita” fuori dal mondo anche se, molto di più, impiega le sue conoscenze.

Il senso della storia ci insegna che nessun strumento sostituisce, per intero, i precedenti. Bisogna saper “dosare” tradizione e innovazione: ogni dieci email scrivete almeno una lettera “a mano”; ogni 10 messaggi che ricevete su WhatsApp, leggete un libro di carta in più; ogni dieci telefonate, fate una visita di persona. Grazie!”

I paragrafi di cui sopra sono tratti da “Il Labirinto – Viaggio al Centro di noi” (pag. 10) di Claudio Ricci, libricino tanto veloce da leggere quanto profondo, di cui consiglio vivamente la lettura! Ne trovate una copia digitale sul sito dell’On. Ricci, al link www.claudioricci.info oppure facendo click qui (si accederà ad una versione digitale del libro)

Architettura e Architettura dell’Informazione: dal rappresentare all’informare

Ognuno di noi, come architetto dell’informazione, al pari di un vero architetto, non parliamo di “verità” dei nostri progetti, ma ci focalizziamo su quante strade un progetto può aprire, su quale funzionalità e utilità il nostro lavoro può ricoprire per le persone che usufruiranno di un nostro progetto.

A muovere le nostre scelte sono le parole “funzionamento” e “utilità”, termini che ci permettono di ponderare al meglio la qualità delle nostre idee e la loro applicabilità-implementabilità.

L’architettura dell’Informazione determina rapporti di forza, l’esistenza di sovrastrutture nel complesso dell’opera che stiamo realizzando; l’architettura dell’Informazione è un motore di relazioni, strutturante nella società.

Il grande Louis Kahn, un architetto di fama mondiale, ha proposto un semplice ragionamento estetico che ci dimostra quanto la rivoluzione informatica da cui siamo permeati oggi estenda concettualmente il suo campo all’architettura.

“Se chiediamo all’architettura Che cosa vuoi essere?
lei ci risponderà:
“Esisto in quanto rappresento,
Esisto in quanto funziono,
Esisto in quanto informo”

Con l’epoca moderna e la diffusione dell’informatica nelle nostre vite, è avvenuto un passaggio nella coscienza collettiva e nelle forme rappresentazionali con cui ci esprimiamo: dal rappresentare siamo passati all’informare.

Una riflessione su Digitalizzazione, Connettività e Abilità Cognitive

Cal Newport, nel suo blog, esprime alcune considerazioni circa l’iperconnessione a cui siamo esposti quotidianamente:

“Con la crescente connettività a cui siamo esposti – come è facile constatare in qualsiasi occasione della nostra vita – l’individuo mostra inevitabilmente un calo delle abilità cognitive.

La spesa principale nel campo dell’economia del sapere è la mente umana: riducendo la sua capacità di produrre “output” valido, non è logico ipotizzare un calo di produttività del lavoro?

La connessione costante, nonostante sia la diventata la normalità, non è necessriamente un bene.”

Verso la guida autonoma: design, HUD, Digital Instrument Clusters e HMI

Con lo sviluppo della guida autonoma (autonomous driving), il designer deve concepire diversamente l’automobile: cambia l’esperienza utente della guida, cambia l’esperienza della connettività, cambiano le architetture di sistema e le concezioni di “affidabilità” e sicurezza. Servono nuove interfacce per vivere appieno un’esperienza che fino ad oggi abbiamo potuto immaginare. In aggiunta a questi cambiamenti strutturali, dobbiamo iniziare a riflettere su come HUD – Head Up Displays – e digital instrument clusters e altri schermi stanno arricchendo l’esperienza di guida rispetto al passato.
Odometri, tachimetri e altri apparecchi importantissimi nell’automobile si digitalizzeranno con sempre maggior efficacia, per garantire grande sicurezza ma anche intrattenere e fornire un’esperienza di guida sempre più gradevole e comoda, nonché sicura e su misura per il guidatore.

La guida autonoma, mediata da HMI sempre più performanti e facili da usare (Human Machine Interfaces), acquisirà sempre maggior ragion d’essere. Fino a quando i veicoli non saranno completamente autonomi, tutte le funzioni tradizionali dell’HMI dovranno essere disponibili per il guidatore e si dovrà cercare di ridurre ogni possibile distrazione. Progredendo verso questa progressiva “autonomizzazione”, avremo un elevato numero di “funzioni aggiuntive” e “addons” nei nostri cruscotti, come assistenza e supporto alla guida (distanza dal veicolo che ci segue e da quello che ci precede, limiti di velocità, calcolo di quanto manca al raggiungimento di una destinazione, consumi di carburante, rilevazione di segnali, divieti e limiti di velocità, strisce delimitatrici di corsie, ecc).

Ad attenderci, come designer, c’è una grande sfida: progettare interfacce che siano sì più semplici possibile, più usercentered possibile, più accessibili possibile, ma anche complete e affidabili.. perché la persona deve guidare vivendo la miglior esperienza possibile.

Il Consumo Futuro delle Notizie – IJF16

Il consumo delle e-news offre interessanti opportunità per il giornalismo televisivo. Quali, esattamente? Di questo e molto altro hanno parlato Adriano Farano, co-founder e CEO di Watchup e Jim Louderback, venture partner di Social Starts. Essi hanno cercato di fornire qualche spunto di riflessione attraverso i punti di vista delle compagnie televisive e quello delle startup della Silicon Valley, individuando punti di contatto tra le attuali best practices americane ed europee. Ci si è chiesto come può il giornalismo oggi reinventare l’esperienza del consumo di notizie, adattandosi alle nuove piattaforme televisive emergenti sul mercato, come Chromecast, Amazon Fire TV o Apple TV.

In questo scenario internazionale, il cui emblema è la sovrabbondanza di contenuti, è l’utente a giocare un ruolo fondamentale. Lo scontro “dei titani” mediatici si gioca intorno ai gusti della persona, perché questa sceglie, decide e determina; a differenza del passato, è oggi l’utente a decretare il successo o il fallimento di un’idea grazie alla semplice richiesta o rifiuto di un determinato contenuto mediatico. E per questo, grazie al ruolo centrale della persona, l’emittente televisivo deve necessariamente adattarsi e misurare le proprie intuizioni sui gusti del pubblico.

Il sorgere ed il diffondersi di metodologie di lavoro basate sui feedback forniti dall’utente – caso emblematico ne è lo user centered design (o brevemente UCD) sia nel software che nel design – ci comunicano la modalità in cui persino le tecnologie si sono evolute nel corso del tempo: la vicinanza all’utente le rende ciò che sono in grado di trasmettere e far fruire quotidianamente. Questa adattabilità alle esigenze dei fruitori di un servizio ha grandi potenzialità e grandi limiti, ormai ben noti a tutti coloro che si interessano di informazione e comunicazione: tra le potenzialità troviamo l’esistenza di contenuti on-demand, la possibilità di calendarizzare, ordinare e suggerire,

propria delle piattaforme mediatiche digitali che propongono, con algoritmi sempre più all’avanguardia, i contenuti che l’utente ritiene interessanti e degni di nota; invece tra i limiti troviamo la questionabilità della privacy e tutto ciò che ad essa si connette, la preoccupazione sulla forse eccessiva ingerenza del software e dei suoi algoritmi nella nostra vita, le problematiche di sicurezza innescate da sistemi e periferiche sempre più pregni di dati sensibili.

E’ questo lo scenario in cui si delineano le più grandi sfide che le compagnie televisive devono necessariamente affrontare oggi. Tra queste, due hanno la massima priorità:

1) chiarire quale ruolo ha la qualità nel giornalismo dell’era digitale;

2) delineare strategie per la distribuzione dei contenuti sia vincenti che sostenibili.

Si è infine riflettuto sui paradigmi attraverso cui sta mutando il concetto di “notiziabilità televisiva“: come guarderemo le news in futuro? come preferiremo informarci? continueremo a farlo attraverso i sistemi tuttora conosciuti, o attraverso nuovi mezzi e strumenti, non ancora individuati? A nostro giudizio, sembra adeguato astenerci dal fare previsioni strategiche su ciò che vedrà, farà e sarà mercato nei prossimi anni. Possiamo però asserire che l’attenzione all’esperienza di fruizione e consumo dell’informazione che le compagnie televisive stanno curando dimostra una seria volontà di essere quanto più vicine alle esigenze del cliente, e questo non può che soddisfarci.

Relativamente alla fruizione, dobbiamo poter accettare che in futuro le nostre modalità di fruizione potrebbero differire rispetto ad oggi: si adegueranno ai tempi, alle dinamiche della società, adattandosi opportunamente a ciò che la tecnologia permetterà di raggiungere, e a come le persone vorranno adeguarsi ad essa.

Per quanto ci riguarda, possiamo conoscere il passato e notare alcuni passaggi fondamentali per il nostro ruolo di fruitori d’informazione mediatica:

1) in passato il nostro concetto di televisione era ancorato ad una fisicità imperante: le tecnologie via cavo o via satellite rendevano le trasmissioni “trasmissibili” grazie alla presenza di apparecchi e hardware esterni al dispositivo televisore, a questo connessi fisicamente con l’ausilio di cavi;

2) da una decina d’anni a questa parte la notiziabilità è stata sempre più contraddistinta dalla portabilità, emblema della quale sono Tablet e Smartphone, e periferiche mobili in generale;

3) oggi il trend che traina il mercato è quello della Smart TV, dispositivo connesso ad internet, che ha completamente rivoluzionato il concetto di “vedere” e di “fare” televisione: se nell’era analogica l’aspetto preponderante del prodotto o servizio era l’hardware, oggi la figura più importante della nostra esperienza di fruizione è il software. All’intangibilità si affianca la digitalità dei segnali e delle connessioni, sempre più veloci e sempre più performanti.

Internet in mobilità: connettività ricca di risvolti e opportunità

L’internet in mobilità è l’attuale stadio evolutivo della rete: attraverso la connettività mobile la fruizione dei contenuti non si limita più all’ambiente domestico o lavorativo, ma si estende al tempo libero (viaggi, sport,…) e a virtualmente ogni attività in cui il web può avere valenza pratica.

La diffusione dell’internet in mobilità è stata favorita – tra le varie cause che si sono concatenate nel tempo – dalla connettività wifi (e tecnologie annesse – varie tipologie di segnali mobili, con loro varianti: una fra tante, il WiMax)

Tra le innovazioni introdotte e apportate dal mobile web troviamo la velocità di comunicazione e l’efficienza con cui è possibile scambiare informazioni in tempo reale (trading online, transazioni finanziarie, acquisto di beni). Circa il tempo impiegato nella comunicazione, la soglia di interscambio informativo si abbassa drasticamente e, per questo, la connettività mobile porta con sé la semplificazione di processi sinora considerati dispendiosi in termini di tempo (assemblee, briefing, conferenze aziendali, meeting), permettendo agli utenti di partecipare a eventi e fruire di contenuti direttamente dalla poltrona di casa o dalla sala riunioni aziendale, senza doversi necessariamente spostare in altre città o stati.

A questo proposito, anche la connettività su mezzi di trasporto ha risvolti pratici non indifferenti: difatti, tra i suoi vari pregi, ti permette anche di lavorare da casa, in treno e autobus durante un lungo viaggio. In ultima analisi, si semplifica logisticamente la vita quotidiana: con telefoni cellulari o chiamate via web è possibile mantenersi aggiornati in tempo reale di importanti novità con colleghi, familiari, ecc.

E se ti piacerebbe approfondire il discorso sul come internet ha cambiato la nostra vita e come continua a cambiarla – e cosa Tu puoi fare per restare sempre al passo coi tempi – sappi che ho trattato di questo e molti altri argomenti nel testo Produttività Digitale.

Social Network: dimensione pubblica e dimensione privata

I social network sono costituiti da una dimensione pubblica e privata. La dimensione pubblica fa riferimento all’aspetto ‘social’ di ogni servizio di social networking, ovvero la capacità di
permettere all’utente di costruirsi una propria rete di contatti, di varia natura (professionale e occupazionale vs reti sociali di amici e familiari vs followers/seguaci vs relazioni amorose).

Oltre a queste reti relazionali, la cui estensione e stratificazione può dipendere dall’utente e da suoi obiettivi, passioni e desideri, abbiamo una dimensione privata del social networking. La dimensione privata si riferisce al modo in cui la persona costruisce autonomamente la propria identità tramite i contenuti che condivide con il (suo) mondo. Questi contenuti condivisi vanno a creare la sua identità “pubblica” e privata allo stesso tempo: rappresentano la sua identità in rete e ne definiscono l’immagine (interessi, personalità, carattere, obiettivi…). Le due dimensioni, pubblica e privata, spesso coesistono chiaramente e sono facilmente individuabili nella maggior parte degli utenti della rete iscritti ad un social network.

E’ però importante ricordare che non tutti i social network permettono all’utente di evidenziare le due dimensioni: se alcuni social network permettono all’utente di creare una propria immagine professionale online (es. Linkedin), altri ne accentuano l’aspetto sociale e relazionale (es. Facebook). Altri ancora pongono l’accento su hobby, creazioni e interessi personali (es. Youtube o Flickr). Grazie alle due dimensioni prese in considerazione in questo breve testo, i social network hanno messo in luce la figura dell’utente, che diventa ormai ‘prosumer’, creatore e fruitore di contenuti.